Tokyo: notturni urbani
C’è sempre un elemento di imprevedibilità nei lavori di Marco Bettoni, nel tipo di forme e di materiali usati. La sua apertura alle stimolazioni esterne, il suo interesse per il reale, lo porta a rispondere con curiosità e arguzia a elementi incontrati per caso nei suoi viaggi in giro per il mondo. Questo comporta una sorta di autonomia nelle sue produzioni prese individualmente, e insieme è rintracciabile in esse un filo conduttore in quella distinta qualità di attrarre l’attenzione dell’usufruitore sul fenomeno visuale (o anche acustico) oppure sul problema filosofico. Ed è sempre un’esperienza stimolante avvicinarsi a una delle sue produzioni e concentrarsi esclusivamente su di essa.
Tokyo Lights consiste in un gruppo di notturni urbani realizzati fotografando le insegne luminose dei taxi di Tokyo. Ogni insegna si staglia contro l’oscurità, un oggetto distinto, che sembra estraneo a tutto. Spesso l’insegna si riflette, raddoppiandosi, sul nero lucido del tettuccio della vettura. Ci vuole notevole agilità nell’esecuzione di queste immagini, e Bettoni le ottiene a volte rischiando, quando, alla ricerca di un particolare taglio, si muove nel traffico. Eppure nelle immagini brillanti dei light boxes, il traffico è completamente silenzioso, quasi assente: la frenesia urbana lascia il posto a una tranquillità meditativa.
In aggiunta, o forse in relazione a questa qualità, l’aspetto più intricante delle immagini è la sensibilità con cui l’artista, che è italiano e che risiede a Londra, ha filtrato una sua personale risposta alla cultura e alla storia giapponese. Il primo impatto è di meraviglia scoprendo l’origine di questi oggetti luminosi, la loro idendità di mere insegne di uso quotidiano. Ma esse non sono altro che una trasposizione nel contemporaneo delle tradizionali “lanterne”. In Giappone, come anche in Cina, i festival delle lanterne hanno una duratura tradizione. In Cina c’è da duemila anni un festival delle lanterne che celebra l’ anno nuovo. In Giappone, durante l’Obon, un festival buddista dedicato alla memoria di amici e parenti defunti, le lanterne, magnificamente disegnate, vengono mandate alla deriva sull’acqua. La Prefettura di Yamagata in Giappone, organizza un “Festival delle lanterne di neve” in cui le luci, nascoste all’interno di lanterne fatte di neve, illuminano l’oscurità della notte.
Una descrizione del XIX secolo relativa a un festival cinese parla di lanterne che sono “cubiche, rotonde come una palla, circolari, quadrate, piatte e sottili, o anche oblunghe, o a forma di vari animali. Alcune sono così ben fatte da rotolare per terra come una palla di fuoco... Altre, quando vengono accese da una candela o dal petrolio, hanno un movimento girevole o rotatorio…” e cosi` via.
L’amore per le lanterne galleggianti sull’acqua sembra associarsi alla celebrata nozione del “mondo fluttuante”, una definizione usata per descrivere la cultura metropolitana nel periodo Edo in Giappone e che produsse le popolari stampe Ukiyo-e: “quadri del mondo fluttuante”.
L’opera di Bettoni è in effetti un mondo fluttuante metropolitano giocato con ironia sul riflesso delle insegne elettriche sui tettucci degli abitacoli dei moderni taxi.
Nel suo insieme il lavoro di Marco Bettoni lo si può prendere come esempio della possibilità di rintracciare elementi della cultura locale in tratti della cultura globalizzata, a cui l’artista aggiunge il senso di personale meraviglia per cose che la gente del posto dà per scontate vivendone la quotidianità. In questo c’è il misterioso funzionamento di ciò che è spesso erroneamente sminuito come esoticismo, ma che è in realtà un fenomeno universale, un’inevitabile componente del rinnovarsi della percezione.
Guy Brett
Critico d’ arte e scrittore
Traduzione: Paolo Nelli
Drawing the Sky/ Disegnando il cielo
Per la produzione di questa nuova collezione è ancora alla macchina fotografica che Marco Bettoni si rivolge. Ma, come già nei suoi lavori precedenti, anche in Disegnando il cielo l'artista non ha interessi di realismo documentaristico, la sua arte non è reportage, se pur lo spunto ispiratore viene dal quotidiano. Un quotidiano che non è del tutto suo perché Bettoni è italiano e vive a Londra, condizioni, entrambe, che gli affinano le possibilità osservative di una realtà altra che, comunque, lui conosce bene. I suoi frequenti viaggi in Giappone gli permettono di cogliere l'insolito nel solito, di scorgere potenzialità negli elementi del normale e di tradurli in linguaggio artistico dove riesce a rintracciare, in un percorso personale, il legame del quotidiano con la tradizione profonda della cultura che lo genera. Un quotidiano che, una volta estrapolato, diventa qualcosa d'altro, e della realtà originaria porta le risonanze.
Le sue Tokyo Lights, da tempo presenti nel mondo artistico londinese, erano foto delle insegne di taxi, dove, nella notte, ciò che doveva essere un cartello luminoso a indicare la funzione commerciale di un'auto, diveniva un oggetto distaccato dal turbinio della metropoli, calmo, che galleggiava in una pacata oscurità. Una lanterna, dunque, ancorata all'antica tradizione giapponese, che un occhio attento, e straniero, ha potuto scorgere fluttuante nel traffico della metropoli a ricordare che anche nella frenesia c'è tradizione. La riuscita dell'operazione sta nella sensibilità dell'artista di avvicinarsi a una cultura senza alterarla, per impossessarsene e viverla a suo modo. Che è quello che accadeva nei suoi Jizo. I Jizo, almeno quelli da cui si era inspirato l'artista, sono statue di aspetto infantile, molto comuni in Giappone, soprattutto nei templi, che proteggono nell'aldilà i bambini morti precocemente, sotto i due anni, o anche non nati. I familiari che hanno subito la perdita coprono la testa dei Jizo con cappellini, mettono loro i bavaglini, portano i giochi d'infanzia. Bettoni si è mosso in equilibrio su quel filo labilissimo che è il dolore individuale e tradizione e li ha reinventati dipinti con i berretti ricamati direttamente sulla tela, con le stesse espressioni del viso stereotipate, immobili, trasformandoli in piccoli totem che, raffigurati in un gesto estetico pacato, ripetuto, riescono a essere rassicuranti e insieme, però, appunto come i totem, inquietano.
In Disegnando il cielo le dinamiche dell'arte di Bettoni ci sono tutte e l'ispirazione prende le mosse, questa volta, dai koinobori, gli aquiloni a forma di carpe che nella festa dei bambini dei primi di maggio solcano i cieli giapponesi. Anche in questo caso l'artista non si accontenta di osservare un evento e riportarlo, quasi che un'esigenza psicologica, o necessità estetica, lo spinga a viverlo in maniera personale per farlo proprio. Nelle sue foto i pesci volanti non appaiono in forma compiuta. L'artista, in un gioco infantile, ha preso lui stesso i fili e, nel movimento rotatorio, ha fatto vorticare sopra di sé gli aquiloni per creare una nuova relazione con l'esterno dove lui stesso fosse partecipe. E i prodotti dei suoi scatti, dell'oggetto originale, hanno mantenuto solo il rimando nella vivacità dei colori che creano lo spazio con l'azzurro del cielo e il verde degli alberi. I koinobori non sono più (solo) aquiloni, sono il cielo stesso, sono il paesaggio. Non c'è ritocco al computer, tutto deve avvenire nell'istante, e le foto fermano il momento, fermano un paesaggio nel suo veloce mutare e l'elemento giapponese, che era il punto di partenza, quasi scompare in queste vedute inventate, che non sono più, per dirla con le parole del poeta Hashin, "né cielo né terra". Di più, non sono né astratti né figurativi. Sono mondi a parte che l'artista ha deciso di creare di forma tonda, con l'utilizzo dell'obiettivo fish eye, perché «il cerchio è un mondo finito e nell'insieme una costellazione di mondi finiti.» Esposti così diventano, dunque, «una creazione di un universo composto da mondi paralleli a se stanti.» Curioso notare come nel rigoglio cromatico di stoffe, nell'azzurro del cielo, le immagini non portino in sé l'affanno del movimento e sono le case, gli alberi, nelle foto dove i giardini prevalgono, sfuocati, sullo sfondo, a dare l'impressione di convergere verso i colori. L'attimo è fermato nella creazione di equilibri interni. C'è impatto visivo, c'è un vento positivo, c'è armonia.
Il vortice, casomai, lo si percepisce nella foto della City Hall, la sede del sindaco di Londra, progettata da Norman Foster. Qui, davvero, sembra di vedere il filo che tiene l'aquilone contorcersi sotto la spinta di un braccio, e l'unico movimento a turbine di tutta la collezione è dato da una struttura ferma, un palazzo che nella sua circolarità, nelle sue pareti di vetro, crea un movimento col quale l'artista collega direttamente i cieli di Nagano a quelli londinesi e apre alla seconda serie di foto, dove si rivela l'interesse per l'architettura, nella sua natura di creatrice di paesaggi nuovi.
La relazione tra paesaggio e edificio è il tema base che impronta l'allestimento annuale di padiglioni temporanei nel cuore di Hyde Park. La Serpentine Gallery ogni estate affida ad architetti rinomati il compito di progettare una struttura nel giardino che faccia da sede esterna, coperta, alla galleria, con bar e punti di ritrovo che verrà rimossa con l'arrivo dell'autunno. Quest'anno è il gruppo Sanaa, degli architetti giapponesi Kazuyo Sejima & Ryue Nishizawa, ad aver costruito una leggerissima struttura di metallo a specchio, sorretta da esilissime colonne, che interagisce totalmente con l'ambiente, nei rimandi di rifrangenze che l'artista usa per ridisegnare relazioni dove è difficile delineare separazioni o limiti. Dove spesso è anche difficile orientarsi nell'illusione ottica. E nella danza dei riverberi si concede la fuga nell'ironia di cogliere dettagli estranianti, nell'attesa che la struttura a specchio conceda buffe distorsioni.
Nell'insieme Disegnando il cielo, rappresenta un arricchimento dell'opera di Marco Bettoni, aprendo la sua ricerca a spazi più ampi, e insieme un continuo nella sua sensibilità artistica di cogliere dettagli di realtà per ridisegnare una realtà appuntata dalla personale firma dove c'è l'equilibrio dell'armonia, il bilanciamento tra figurativo e astratto, la partecipazione diretta nella creazioni delle condizioni perché l'idea dell'opera possa esistere. Dove, ancora, la creatività ha la forza di smontare il punto di partenza, in questo caso i koinobori, senza però snaturarlo, lasciando di esso i rimandi nel prodotto finale, nell'opera d'arte che, distanziandosi, amplifica le possibilità della realtà che ha dato lo spunto all'idea.
Paolo Nelli: Writer
Crossing/Attraversamenti
Una mostra è sempre la messa in scena di una soglia ed una intersecazione. La soglia concerne l’apparire dell’opera come oggetto visibile confinato nella doppia cornice dello spazio e del proprio perimetro. L’intersecazione riguarda il rapporto tra le varie opere presentate nello spazio che si relazionano tra loro attraverso la dialettica delle varie immagini, superando anche l’intervallo, che corre tra l’una e l’altra. Le opere diventano le tracce che registrano attitudini e metodi creativi differenziati tra loro dalla diversità linguistica e dell’intervallo intercorrente. La mostra diventa la rappresentazione simultanea dei vari punti d’incontro e di linearità contraddetta dalla differenza.
Il concetto di crossing-attraversamenti qui sottolinea, anche l’impossibilità di una produzione omogenea ed evidenzia invece la necessità di marcare la soggettività stilistica e culturale dell’artista. Questo concetto di attraversamento trova il proprio riscontro soprattutto nella formulazione espositiva che segnala l’intervallo tra un’opera e l’altra ed evidenzia la circolarità di ciascuna avventura creativa. Un’avventura creativa che sfugge ad un eclettismo facile fondato sulla pura diversità stilistica, ma piuttosto si affida alla complessità dell’esperienza creativa. L’operazione artistica è molto vicina a quella espressa dal poeta Dylan Thomas:”....spesso lascio che un’immagine si produca in me emozionante, e quindi applico ad essa quanto posseggo di forza critica ed intellettuale, lascio poi che questa immagine contraddica la prima già sorta, e che una terza immagine generata dalle altre due insieme ad una quarta immagine contraddittoria, e lascio quindi che tutte restino in conflitto entro i limiti formali da me imposti.”
Sembra che l’artista stia cercando un modo di approdare ad un risultato di formalizzazione linguistica, capace di testimoniare il processo creativo attraverso un’immagine che oggettivamente sfida mediante una condensazione spaziale la temporalità. L’importanza delle sue opere consiste nel riportare nell’arte il valore della durata, la resistenza dell’opera allo sguardo dello spettatore, che poi vuol dire capacità di sfidare il proprio presente e sfondare possibilmente nella dimensione del futuro.
Qui intendo segnalare, in particolare, il lavoro di Marco Bettoni, il modo in cui egli tratta i temi dello spazio e del tempo stemperati nel rapporto di luce e buio. Il titolo dell’opera fotografica è Seijaku, che in giapponese significa immobilità come momento di calma e quiete. L’artista riprende una tematica che gli è cara: frammenti di spazio, la strada, la città di notte, le case, le porte aperte o chiuse, le finestre spalancate dalla coltre di luce, e così in questa opera l’immagine immersa in un alone di mistero è uno spazio notturno, illuminato dalla luce di due lampade, che lascia intravedere l’entrata di un tempio giapponese. L’opera si dà come movimento e riposo, presenza ed assenza allo stesso tempo. È là, sospesa, raccolta nell’attesa di poter fondare un luogo dove l’uomo possa “poeticamente abitare”. Le forme immerse nel gioco di luci ed ombre esprimono l’idea della quiete. Essa si erige come una linea dell’orizzonte, come un diaframma che allude ad uno spazio potenziale. È un apparire che dà alle cose prive di nome proprio la proprietà della forma ed all’immagine una lingua perché possa raccontare le sue ombre. Qui l’artista sottolinea un’idea dell’arte come comunione con un luogo. L’artista è colui che ha la capacità di coglierne la natura, di assimilarne il suo respiro. È cioè colui che sa diventare egli stesso il luogo. Ed è qui, in questo spazio Seijaku, che l’artista ci propone infinite esperienze abitative, ci ritaglia una sua geografia emotiva che segue lo scorrere del tempo in molte storie possibili. Da questo luogo sospeso non rimane che il movimento del pensiero. Un velare il tempo continuo ed indifferente della vita, per rivelare, quell’altro tempo che è movimento dell’immobilità: l’arte.
Stella Santacatterina
Critica d'arte e scrittrice londinese